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La storia di Q

Prologo

 

L’uomo distolse lo sguardo dal suo dipinto e appoggiò il pennello ancora imbevuto di colore sulla rozza tavolozza che teneva in mano. Era molto affaticato. Sentiva che il suo tempo era arrivato e il senso di disperazione lo stava avvolgendo come una seconda pelle. Aveva vissuto una vita dignitosa, felice, completa, eppure non era ancora abbastanza.

Sapeva che mancava solo un ultimo passo prima di potersi lasciare questo mondo alle spalle, prima di poter trovare la pace.

«Maestro!» lo chiamò il bambino da un punto dietro alle sue spalle.

L’uomo si girò e gli indirizzò un sorriso mesto, stanco. Osservò i suoi occhi vispi e intelligenti, e i lineamenti delicati e si preparò a quanto stava per accadere.

Gli fece cenno di venire avanti e gli mostrò il dipinto che aveva appena terminato. Lo sentì trattenere il respiro e lo vide allungare la mano verso di esso, fermandosi a pochi millimetri dalla superficie.

«Ė stupendo», disse il bambino senza distogliere lo sguardo.

Gli occhi nocciola si soffermarono su ogni dettaglio, accarezzando ciascuna pennellata, ogni sfumatura di colore.

L’uomo mantenne un’espressione neutra mentre dentro di sé si condannava per aver sbagliato, per aver visto qualcosa che in realtà probabilmente non c’era mai stato, ma quando le dita del bambino si mossero ancora verso la tela per sfiorarne la superficie e lo vide irrigidirsi, il suo cuore fece un balzo nel petto.

Lo sguardo del bambino divenne vacuo fino a che i suoi occhi non si chiusero e il suo corpo lentamente si rilassò.

L’uomo scattò dallo sgabello sul quale era seduto per farsi avanti e sorreggere il bambino, ma non fu abbastanza svelto. Il piccolo cozzò il mento contro la mensola del cavalletto e riportò una ferita profonda.

Prendendolo in braccio, lo distese sul letto e andò a prendere l’occorrente per medicarlo. Quando la ferita fu pulita, tirò un sospiro di sollievo: per quanto dispiaciuto per quel piccolo incidente, stava esultando dentro di sé.

Non si era sbagliato, dopotutto. Presto sarebbe stato libero dalle sue spoglie mortali.

 

 

 

 

 

 

 

 

1 La storia di Q

 

Era stato l’oceano con le sue gelide acque a sospingermi verso la riva, a rigettarmi prima che lo potessi raggiungere, e l’aveva fatto senza nessuna pietà.

Le onde si erano infrante sulla sabbia nera, nata dal ruggito feroce della terra tanto tempo prima, e mentre i tuoni urlavano con rabbia — la stessa che avevo provato io quando mi ero vista privare di ciò che sentivo mio di diritto— realizzai che dentro di me qualcosa si stava spezzando e abbandonava il mio corpo.

Quando sopraggiunsero il silenzio e la disperazione, Maria Adelita era divenuta un guscio vuoto, la sua essenza era scomparsa per sempre, lasciando il posto a Q, l’unica donna in grado di sopravvivere a quanto era avvenuto.

 

Seduta sul letto, faccio scivolare la cerniera della mia piccola valigia blu, pensando a quanto sia strano riuscire a racchiudere in uno spazio tanto ristretto una porzione così ampia della mia vita.

Con il sole che filtra dalle tende della finestra completamente aperta, e la leggera brezza che gonfia e smuove la stoffa dei tendaggi, lo sguardo vaga attorno alla stanza spoglia fino a raggiungere il volto accaldato riflesso nello specchio a doppia anta dell’armadio.

Sorrido alla mia immagine e una strana luce si accende negli occhi di una ragazza — o forse dovrei dire di una donna, ormai — dalla carnagione olivastra e le labbra piene e rosse. Assorta, osservo la lunga cascata di riccioli bruni chiusi in una coda bassa sulla nuca, prima di alzare gli occhi nuovamente al suo volto.

«Cosa ti fa sorridere così?» chiedo in un sussurro alla mia immagine riflessa.

«Chi ti fa sorridere in questo modo?»

Quando abbasso gli occhi al volume dalla copertina azzurra e lucida che ho in grembo, le dita si muovono a sfiorarne il dorso consumato.

Quando lessi per la prima volta il libro di Gustav Flaubert, avevo sedici anni e non fui molto gentile nei confronti della protagonista. Giudicai il suo operato alquanto disdicevole e lei, Madame Bovary, debole e di facili costumi.

Si trattava di un volume ricevuto in prestito da un’ amica di mio fratello; un libro che mai e poi mai avrei acquistato di mia spontanea volontà, dopo averne letta la trama sul retro della copertina.

Essendo di salute cagionevole però, e trovandomi spesso a passare le mie giornate chiusa in camera, non avevo potuto fare troppo la schizzinosa: avrei letto qualunque cosa avessi avuto a portata di mano, anche quel libro che ora tenevo in grembo. E così avevo fatto.

Ricordo che pensai: “Se non lo ama perché non lo lascia? A quale scopo tradirlo?”

 

In quelle giornate nelle quali ero a letto malata, comunque, mia madre si fermava spesso davanti alla porta aperta della mia camera e mi osservava. Nel suo sguardo leggevo rancore, come se il fatto che io fossi ancora viva, nonostante i dottori mi avessero già condannata da tempo, le risultasse insopportabile.

Non aveva mai avuto il coraggio di dirmelo in faccia, ma sentivo che la causa di tutto quel risentimento era dovuta al fatto che era stata lei a doversi prendere cura di me così assiduamente, e per farlo, aveva dovuto lasciare da parte la sua vita sociale. Inoltre, a causa delle mie condizioni, una buona parte della paga di mio padre era stata destinata alle mie terapie piuttosto che al benessere familiare. Quando i medici poi avevano gridato “al miracolo” infine, ed era sopraggiunta la mia guarigione, non l’aveva presa molto bene. Tutti quei soldi buttati. Tutto quel tempo perduto.

Tra noi, da che posso ricordare perciò, non si era mai instaurato un normale rapporto madre/figlia. Vivevamo nella stessa casa, mangiavamo alla stessa tavola, dormivamo sotto lo stesso tetto, ma oltre questo non c’era altro che ci accomunasse.

Così avevo iniziato a vagare con la mente, a rinchiudermi in un piccolo mondo privato nel quale nessuno avrebbe mai avuto accesso. L’avevo disegnato con i miei desideri di bambina, colorandolo con le speranze e le buone intenzioni della prima adolescenza, ed infine, l’avevo lasciato da parte sperando che nei momenti difficili che sarebbero potuti sopraggiungere in età adulta, avrei trovato in esso la mia ricompensa.

 

A quei ricordi rabbrividisco per un istante e il sorriso scompare dal volto della donna riflessa nello specchio.

 

Terminai di leggere “Madame Bovary” in meno di due giorni, e restituendo il volume alla legittima proprietaria, le feci presente le mie conclusioni personali su quella storia, provocando la sua ilarità.

«Devi crescere ancora un po’ — disse lei, canzonandomi — e poi ne potremo riparlare, Maria.»

Obiettivamente, per le esperienze vissute e per la maturità acquisita nel tempo, potrei pensarla diversamente ora, ma all’epoca ero troppo giovane per capire.

L’adulterio non è giusto, non è socialmente corretto, su questo concordo, però ci possono essere delle attenuanti. Sono i particolari che si amalgamano alla storia e ne definiscono ogni aspetto, a renderla unica, vissuta, speciale.

Sono le sfumature a fare di noi ciò che siamo. Le sfumature ci assoggettano e ci spingono a muoverci come oggetti abbandonati in balia delle onde, senza destinazione, senza logica, con la sola consapevolezza che stiamo seguendo il nostro cuore.

Possiamo opporci alla corrente?

 

I passi di mio marito interrompono il corso dei miei pensieri, risuonando pesantemente mentre sale gli ultimi tre scalini che portano alla nostra camera da letto. Sorrido ancora mentre mi volto verso la porta aperta e lo vedo entrare nella stanza, dando un’occhiata veloce all’unico bagaglio che deve ancora caricare in macchina.

«Se hai bisogno d’aiuto sono qui.»

«Grazie, ma manca solo questa», lo rassicuro indicando la piccola valigia sul letto.

«Sei pronta?» chiede mentre una strana espressione gli arcua le sopracciglia scure.

«Quasi.»

Quando si accovaccia per raccogliere una busta sul pavimento vicino ai miei piedi, ammicca e me la porge.

«Non dimenticare la lettera del tuo ammiratore», dice e poi esce dalla stanza con la valigia blu in mano.

Possiamo opporci alla corrente? — chiedo ancora a me stessa — possiamo riuscire a negarci quell’attimo di felicità?

La risposta giace tra le mie mani, nella busta che mi ha appena passato mio marito e che contiene una lettera scritta in una calligrafia nervosa e elegante che nel tempo ho imparato ad amare.

 

“Mia cara,

per quanto breve, il tempo passato insieme è stato prezioso, intenso. Vederti sbocciare sotto i miei occhi nella donna che saresti divenuta, mi ha colmato il cuore di gioia, e mi ha dato speranza. Finché ci sarai tu in questo mondo, c’è ancora una possibilità per l’umanità di vivere un’esistenza felice.

Le cose non andranno sempre bene e il sole non bacerà ogni giorno la tua pelle d’ambra, ma fidati quando ti dico che per ogni lacrima versata, ci sarà un sorriso, così come dopo la pioggia, ci sarà sempre un arcobaleno che distende le sue braccia verso il cielo.

Non arrenderti mai, Q.

Sei una donna intelligente, dotata di una forza interiore incredibile. Guarda quello che sei riuscita a fare, mia cara, guarda quanto potrai ancora ottenere nella tua vita.

Ora mi sento finalmente pronto per lasciare questo mondo perché so che è in buone mani, le tue.

In allegato a questa missiva, troverai una copia delle mie ultime volontà, ma questo non è un addio, è solo un arrivederci, perché so che un giorno ci rincontreremo a Quero!

 

Il tuo più grande ammiratore

Pascal”

 

Mentre sento le lacrime pungermi gli occhi, mi alzo dal letto, con ancora in mano il piccolo volume azzurro e la lettera di Pascal, e mi avvicino alla finestra della mia camera.

L’oceano è quieto e irradiato sulla superficie dal bagliore dei raggi solari, mentre torno indietro con la memoria a più di un decennio prima, perdendomi nei ricordi.

 

Il mio nome è Maria Adelita, ma l’uomo che amo mi ha sempre chiamata Q.

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